Nel mondo del calcio, pochi nomi evocano emozione e rispetto come quello di Garrincha, un calciatore che ha saputo conquistare il cuore del Brasile e di milioni di appassionati nel mondo. La sua vita, ben al di là dei successi sportivi, è un inno alla resilienza ma anche un triste racconto di autodistruzione. Questo articolo ripercorre la sua straordinaria carriera, il suo drammatico percorso personale e il lascito che ha lasciato nel panorama calcistico.
Garrincha, il cui vero nome è Manoel Francisco dos Santos, è nato in una famiglia segnata da difficoltà. Sua madre era casalinga e suo padre, un alcolista, assente più che presente. Sin dalla giovane età, Garrincha ha dovuto affrontare delle sfide fisiche, avendo una gamba più corta dell’altra. Questi ostacoli non hanno però fermato la sua volontà di giocare a calcio. Sin da ragazzino, si ritrovò a lavorare in fabbrica e, nel frattempo, continuava a coltivare il suo amore per il pallone. La sua determinazione e il suo talento innato lo portarono a farsi notare, e presto divenne un bambino prodigio, attirando l’attenzione delle squadre giovanili locali.
Negli anni ’50, Garrincha entrò a far parte del Botafogo, una delle squadre più prestigiose del Brasile, dove sbocciò la sua carriera. La sua abilità nel dribbling, l’eleganza nei movimenti e la sua visione di gioco ben oltre la norma lo portarono a essere riconosciuto tra i migliori calciatori del suo tempo. Giocare con la Seleçao fu il coronamento di un sogno: il Mondiale del 1962 in Cile, dove la sua sagacia e il suo talento portarono il Brasile alla vittoria, consacrandolo eroe nazionale.
Dopo il trionfo mondiale, Garrincha divenne un simbolo non solo del calcio, ma anche della lotta sociale. Rappresentava un’icona di speranza per molti brasiliani, in un paese che affrontava le disparità sociali. Ma la sua vita privata iniziò a degradarsi: seppur fosse un campione sul campo, le sue scelte personali iniziarono a pesare alla sua carriera e alla sua salute.
Garrincha si avvicinò a un mondo di eccessi che lo portarono alla rovina. Relazioni tumultuose e un costante uso di psicofarmaci aggravarono la situazione. L’alcol, simile a quello che aveva segnato la vita di suo padre, si insinuò prepotentemente nella vita del calciatore. Nonostante i 14 figli – alcuni mai riconosciuti – e la vulnerabilità che mostrava, continuava a lottare per trovare un equilibrio. La sua storia d’amore con Elza, che sembrava rappresentare la sua luce, finì per spegnersi nella tempesta di auto-sabotaggi.
Il 17 febbraio 1980, eccolo lì: un uomo, simbolo di un’epoca, carico di memorie e di battaglie, seduto su un carro di samba durante il Carnevale di Rio de Janeiro. Vestito ancora con la maglia del Brasile, l’icona del calcio si mostrava fragile, con uno sguardo lontano, quasi perduto. Qui, intorno a lui, i fantasmi del passato stavano per sopraffarlo, mentre le persone lo osservavano, ricordando non solo il calciatore, ma anche il talento di un uomo che ha portato gioia e speranza a tanti, con la sua visione di gioco unica e col suo stile inconfondibile.
La storia di Garrincha rende chiara una verità: il talento può brillare, ma le scelte personali possono oscurare anche le stelle più luminose. Oggi, il suo nome è celebrato non solo per le sue gesta sportive ma anche come un monito a coloro che lo vedono come il simbolo di una vita che, sebbene ricca di successi, fu segnata da una profonda instabilità. Garrincha vive oggi attraverso i ricordi e i racconti, un’eredità che continua a ispirare gli appassionati di calcio e non solo.